Rodolfo Siviero, il monument man italiano

Rodolfo Siviero davanti alla Danae di Tiziano, trafugata da Cassino nell’ottobre 1943, recuperata da Siviero nel 1947
di Francesca Bottari
Rodolfo Siviero (Guardistallo-Pisa, 24 dicembre 1911 – Firenze, 26 ottobre 1983) è stato il più esperto cacciatore di opere d’arte e beni culturali. Un monument man italiano di straordinaria abilità, cui si deve il recupero di centinaia di capolavori depredati dai nazisti in Italia dal 1938 al 1945 e dispersi o trafugati dal dopoguerra alla sua morte, nel 1983. Ma pochi conoscono la storia di Siviero, malgrado abbia poi ricoperto la carica di ministro plenipotenziario e sia stato protagonista di rocamboleschi recuperi, puntualmente riportati dalle cronache italiane. La sua figura sembra, infatti, aver subito uno strano offuscamento post mortem, anche a causa di un’esistenza condotta all’insegna della segretezza e della doppiezza, oltre che di una pervicace ostilità verso ogni appartenenza politica, aspetto che gli ha procurato scarse simpatie trasversali.
Non a caso Rodolfo Siviero nasce come spia. Dal 1937 alla fine del ’38 il giovane toscano, allora intenzionato a fare il giornalista e sostenuto da diverse personalità del Regime fascista, è inviato dal SIM in missione segreta in Germania. A far cosa? Tuttora appare impossibile ricostruirne con precisione l’incarico; la sua stessa testimonianza, raccolta in alcuni diari e poi tramandata nella scarsa bibliografia, appare vaga e contraddittoria. Forse anche in ragione del fatto che, una volta tornato in Italia, la sua adesione giovanile al Fascismo si esaurisce, fino a condurlo sul fronte opposto, quello per il quale Siviero passa alla storia.
In tempo di guerra, a Firenze, egli infatti organizza e dirige un nucleo clandestino che in collaborazione con gli alleati e i partigiani svolge una rischiosa attività spionistica, grazie alla quale, subito dopo la liberazione, buona parte del patrimonio esportato ha fatto ritorno in Italia. Un’enorme quantità di opere d’arte e oggetti vari di alto valore storico – oltre che archivi, biblioteche, preziosi documenti – giacevano ancora, dopo la guerra, nei nascondigli o nelle raccolte private del Reich. Per quasi trent’anni il detective, poi divenuto funzionario dello Stato italiano con un incarico speciale, ha perseverato con successo nella sua ricerca.
Ma perché tanto mistero intorno a lui?
Una figura misteriosa, affascinante e controversa
Per certi suoi trascorsi ambigui, per i metodi da agente segreto e i colpi messi a segno in modo spettacolare anche in tempo di pace, Rodolfo Siviero è stato fatto oggetto di ammirazione così come di diffidenza e anche di ostilità. Ma il risultato del suo lavoro è un dato di fatto. Senza la sua azione investigativa ostinata e spregiudicata oggi l’Italia sarebbe priva di un pezzo rilevante di storia identitaria.
Nel 2013, a trent’anni dalla sua morte, ho compiuto il primo tentativo di ricostruirne una biografia. Operazione non facile per almeno due ragioni. Da una parte la sua vita avvincente, ma insieme costellata di zone opache, induce al racconto romanzato. Dall’altra la natura della documentazione che lo riguarda e il cliché che vige sulla sua persona vincolano a una severa ricerca d’archivio e alla sistemazione di un materiale sterminato, in larga misura inedito e solo parzialmente fatto già oggetto di disamina critica.
Gli scritti principali di Siviero da lui stesso dati alle stampe poco prima di morire – storie avvincenti di guerra e dopoguerra – sono occupati in buona sostanza dal racconto della sua vita, dei recuperi delle opere d’arte e della lotta condotta senza pause contro la burocrazia italiana, che a suo dire aveva sempre frenato e ostacolato il suo lavoro.
Il nostro monument man ha raccontato ciò che pochissimi altri potevano. Di convogli nazisti in partenza per il Nord, zeppi di quadri e statue sottratti ai musei, sorvegliati in segreto dai suoi uomini. Gli alleati e i partigiani erano messi al corrente dagli informatori addestrati da Siviero sulle rotte dei camion, sulle destinazioni dei treni, sui nascondigli dove i tedeschi ammassavano i capolavori italiani. Conoscere le mete di questi trasporti significherà un domani poterli riportare a casa. La documentazione che ha raccolto in quegli anni con metodica perizia ha fatto sì, unita a quella raccolta dagli alleati, che della gran parte delle opere trafugate non fossero cancellate le tracce.
La spia
Nell’occuparmi di Rodolfo Siviero, una presenza ingombrante è sempre stata l’immagine pubblica che lo ha accompagnato in vita e ne ha adombrato il ricordo: quella del personaggio bifronte o chiaroscurale, fascista e antifascista, eroe e spia, benefattore e approfittatore, rustico e salottiero.
Uno degli aspetti più delicati intorno alla sua personalità riguarda il suo reclutamento da parte del SIM (il Servizio Informazioni Militare, nato nel 1925 come erede della struttura informativa del regio esercito, poi divenuto organismo dello Stato maggiore generale, della Marina e dell’Aereonautica e rimasto in vigore fino al 1943), la missione che gli fu affidata e poi le ragioni effettive del suo allontanamento dalla Germania. Proprio in relazione a questo ambito nodale della biografia di Siviero, vi è incoerenza nella documentazione, come nei dati che egli fornisce. E non può essere un caso se tra gli scritti autografi lasciati da lui stesso nell’Archivio dell’Accademia delle Arti e del Disegno di Firenze, di cui è stato presidente dal 1971 – 8 diari redatti a partire dal 1930 e 2 agende – manchino quelli relativi al biennio trascorso in Germania.
Dopo il rientro in Italia, alla fine del 1938, la sua situazione resta indecifrabile fino al momento in cui non lo troviamo impegnato sul fronte opposto, attivo nella segreta e clandestina tutela del patrimonio artistico minacciato.
Più avanti, quando i successi portentosi del suo lavoro lo portano, in tempo di pace, fino alla carica di ministro plenipotenziario per i recuperi di beni trafugati, i suoi metodi da «soldataccio del SIM», come hanno a dire alcuni suoi detrattori, insieme all’atteggiamento indipendente e soprattutto sprezzantemente antiburocratico che egli mantiene, alimentano le occasioni di critica. Negli anni dell’epurazione, poi, all’ex spia fascista è progressivamente negato il credito culturale. Quando riporta in Italia il Discobolo rapito da Hitler o la Danae di Tiziano finita in dono a Göring o ritrova l’Efebo di Selinunte rubato dalla mafia, i risultati del suo lavoro, quanto più sono spettacolari, finiscono per rinvigorire l’immagine dell’uomo ambiguo e sfuggente.
1936 –1938: la linea d’ombra
Dallo spoglio dei diari si ricostruisce come, dalla metà degli anni Trenta, la sua rete di conoscenze politiche e diplomatiche consenta al giovane Siviero di proporsi come giornalista all’estero, forse proprio per missioni a scopo propagandistico del regime fascista. È Galeazzo Ciano, ministro per la Stampa e la Propaganda, che lo appoggia. Non a caso i suoi scritti fanno intravvedere una certa intenzione di controllo sul detto e sul non detto. Potrebbero essere questi i mesi, infatti, in cui Siviero si accosta concretamente all’intelligence militare.
Tra il ’36 e il ’37 in suo favore si muovono di nuovo Ciano, ora agli Esteri, e poi Giuseppe Bottai, ministro per l’Educazione nazionale, Alessandro Pavolini e e altre eminenti cariche diplomatiche. Per Siviero, che conosce bene il francese, si suggeriscono le sedi di Francia o del Belgio.
Eppure, verso la fine del 1937, egli ottiene solo una borsa di studio in Storia dell’arte e parte per la Germania; è un risultato modesto rispetto alle sue aspettative. Tutta la storiografia concorda sul fatto che la borsa sia la copertura di un incarico come collaboratore e informatore presso il SIM. Al tempo l’organizzazione segreta collabora, pur non in dipendenza gerarchico-funzionale diretta, con la rete degli addetti militari presso le ambasciate d’Italia. È plausibile che il coinvolgimento di personaggi dal profilo così alto implichi proprio la segnalazione di certe sue intenzioni e capacità, nonché il processo del suo arruolamento.
Ma cos’è il SIM, e quale può essere il ruolo che Siviero vi svolge?
In merito alla seconda domanda, molte sono le congetture, ma nessuna di esse è dimostrabile. Le stesse indicazioni che Siviero lascia scritte a riguardo non trovano riscontro documentale, nonostante la loro accuratezza.
L’organizzazione interna del SIM e il funzionamento della struttura restano piuttosto oscuri almeno fino alla metà degli anni Trenta, e dunque proprio nella fase in cui Rodolfo incomincia a farne parte. I capi sono sostituiti dal regime con una certa frequenza, probabilmente al fine di limitare, per quanto possibile, i rischi di tradimento. Un decisivo potenziamento della struttura è operato dal colonnello Mario Roatta, un militare influente, già attivo nella diplomazia del regime e assai apprezzato da Ciano. Roatta si occupa di espandere e rinforzare l’operatività dell’intelligence all’estero, in accordo con la volontà del Duce. Siviero sarebbe stato arruolato come informatore del SIM in coincidenza con il completamento della riforma di Roatta, cioè alla la fine del 1937. Intanto l’organizzazione segreta amplia l’articolazione nazionale ed estera, incrementa il bilancio e si dota infatti di una fitta rete di collaboratori e di una sezione controspionistica.
In relazione alla missione di Siviero è interessante constatare come il riordino voluto da Roatta scaturisca da un promemoria senza firma fatto circolare nel maggio del ’37, nel quale sono messe in luce alcune criticità dell’organizzazione di controspionaggio. Vi emergono proprio la questione delle lunghe e incontrollabili liste degli informatori di frontiera e la necessità di un loro arruolamento più vigilato. Si esorta il servizio a reclutare collaboratori e osservatori tra «la gente del posto, semplice, possibilmente onesta, che non lavori di fantasia». La scelta dei confidenti all’estero è ancora più delicata e nel documento si suggerisce di selezionarli tra agenti di commercio, giornalisti, rappresentanti di società di navigazione e turistiche. Di ‘fantasia’ Rodolfo ne ha fin troppa, ma come giornalista rientra in una di questa categorie.
Evidentemente i contatti che Siviero instaura con persone capaci e addestrate, gli saranno poi preziosi quando, passato nella clandestinità dopo l’8 settembre del ’43 per spiare e arginare le razzie nazista di opere d’arte, attingerà effettivamente anche tra civili e militari di fede antifascista che avevano operato nelle file del SIM. È quindi comprensibile che Roatta già allora avverta l’urgenza di rendere più rigorosi i controlli.
Durante il secondo conflitto mondiale il SIM dipende nuovamente dal regio esercito e dal ministero della Guerra e finirà per svolgere un ruolo significativo anche nei rapporti con gli alleati angloamericani e nell’avventura della liberazione.

Rodolfo Siviero con basco e pistola, anni Quaranta
La chiamata
Rodolfo Sivero, a quanto sembra, lavora per il SIM dal dicembre del 1937 alla fine del ’38, con alcuni rientri in patria certificati dal suo epistolario. Evidentemente l’informatore è attivo in più località e periodicamente scende in Italia per relazionare. A Roma lo ha chiamato il generale Alberto Pariani, sottosegretario alla Guerra e coordinatore delle più delicate missioni speciali, le covert action, ovvero le operazioni segrete condotte sotto copertura. L’esistenza di un ufficio istituito per organizzare tali attività emerge solo nel dopoguerra, durante il processo del 1945 a Roatta, benché senza prove documentarie.
Della ‘chiamata alle armi’ che Pariani gli rivolge Rodolfo dà un sapido resoconto in un manoscritto del 1964. Il suo rapporto con l’esercito italiano, e con l’ambiente di esso che è più vicino all’alleato tedesco, nasce, a suo dire, a partire dal ’34, e ha una motivazione culturale. È in quell’anno, infatti, che il generale De Marchi, comandante del corpo d’armata di Firenze, mostra di apprezzare la conoscenza della cultura germanica di cui il giovane dà prova. Nei fatti Pariani vuole che egli si occupi di ottenere informazioni su quel ‘segreto militare’ ben noto a tutti, ossia l’intenzione della Germania di annettersi l’Austria.
È plausibile che, nella delicata fase politica in cui il Führer è alla ricerca di consensi internazionali dopo aver violato i patti di Versailles, una delle missioni segrete italiane sia quella di sorvegliare le mosse propagandistiche dei tedeschi in relazione all’Anschluss.
In Germania. Palestra di spionaggio
È opinione condivisa dagli storici che Siviero abbia dunque davvero lavorato per circa un biennio come informatore del SIM, benché nessun documento da me compulsato negli archivi militari dia definitiva convalida a questa conclusione. Ma va anche ricordato che se Rodolfo, come molti suoi connazionali, in gioventù ha aderito con entusiasmo agli ideali fascisti, si è sempre dimostrato fermamente avverso al Nazismo e ad ogni forma di antisemitismo.
Con quella «realtà feroce e stupida» – come lui stesso definisce nei diari l’esperienza tedesca – il giovane toscano si scontra a Erfurt, in Turingia. Il 9 dicembre 1937, a ventisei anni, saluta il suo diario con accenti melodrammatici: «questo primo libro della mia giovinezza si chiude, forse. Vado a Erfurt a fare l’antisemita». Il rischio, in effetti, è forte. La cittadina tedesca passa alla storia per un primato nefasto, poiché nel 1933 accoglie la prima agenzia di stampa organizzata per la diffusione di idee discriminatorie nei confronti della razza ebraica. Poco dopo il suo arrivo, nel 1937, Erfurt è teatro di un congresso antisemita e fino al 1939 ospita il quartier generale del più feroce movimento antiebraico, diretto da Ulrich Fleischhauer: il famigerato Weltdienst.
Al di là dell’accertamento delle effettive mansioni di Siviero nelle covert action, i sei mesi trascorsi nello spionaggio devono essere stati per lui molto formativi. L’attività clandestina appare a posteriori, infatti, perfettamente in linea con i tratti più inafferrabili della personalità e dei comportamenti di Rodolfo, e deve essergli servita per smussare le intemperanze e affinare la scaltrezza e l’intuito, di cui è naturalmente dotato. Presto saprà come indirizzare verso altri obiettivi le abilità e la disciplina maturate in questi mesi. E d’altra parte è anche vero che i trascorsi come spia gli costeranno cari quando qualcuno vorrà interpretare la sua attività di informatore come opera di delazione.
Osservatore dei primi saccheggi?
La mia ipotesi è che l’esperienza in Germania possa aver offerto a Siviero, che conosce bene il tedesco, uno stimolo a raccogliere informazioni che trascendano i fini specifici della sua missione. In un memoriale che egli scrive poco prima di morire tratteggiando lo scenario storico e culturale delle sue avventure, c’è un accenno al fatto che i piani di conquista nazisti prevedevano molto precocemente «il rastrellamento nei paesi occupati delle opere d’arte e del materiale culturale e storico». Di certo a Erfurt egli ha occasione di osservare le modalità della confisca di beni agli ebrei da parte dei tedeschi, un’operazione che in Italia ha inizio nel 1938, appena promulgate le leggi razziali.
Sappiamo, poi, che nel dicembre del 1938 Siviero è espulso dalla Germania come ‘persona non gradita’ e torna a Firenze. Egli dichiara nel suo curriculum di aver preso i primi contatti con gli ufficiali dei servizi inglesi e francesi proprio nel corso della missione in Germania. I tedeschi, evidentemente, hanno sospetti su di lui e i fascisti li fanno propri, se è vero che la questura di Firenze gli proibisce di tenere lezioni pubbliche di qualunque tipo, perfino in istituzioni culturali.
Rientrato in Italia, lui stesso sostiene di aver preso fin «dal 1940 contatti con movimenti antifascisti» e di aver organizzato «con altri esponenti della cultura il sabotaggio di acquisti illegali di opere d’arte in atto da parte di Hitler e Göring a Firenze e in altre città». Eppure anche questo passaggio biografico appare non chiaro: è un agente segreto ormai bruciato o continua a lavorare nei Servizi con altre missioni? Nella scarsa letteratura che lo riguarda anche l’epoca che segue il suo ritorno a Firenze è talora valutata con un certo sospetto. Per alcuni egli continua a lavorare per l’intelligence fascista con l’incarico di sorvegliare gli intellettuali fiorentini in odore di antifascismo, per altri – pochi in verità – è addirittura entrato nelle file dell’Ovra, la polizia segreta fascista incaricata di reprimere ogni forma di opposizione al regime. Entrambe le congetture sembrano prive di fondamento, specie in relazione agli anni che seguono e al suo impegno clandestino.
La storia personale di Siviero, e in particolare la sua documentata attività come informatore degli alleati e capo di un gruppo di partigiani dediti a ostacolare le razzie tedesche, portano a escludere una compromissione con il regime di tenore così grave. Sappiamo poi che il controspionaggio partigiano controllava con scrupolo i suoi uomini; e dagli archivi della Resistenza l’attività di mediazione e informazione operata di Rodolfo dal 1943 emerge in diverse circostanze.
L’organizzazione clandestina e il reclutamento
Se appare tuttora arduo datare l’abiura di Siviero nei confronti del Fascismo, conosciamo i dettagli della sua attività sul fronte opposto, avviata all’indomani dell’armistizio. La razzia di opere d’arte italiane messa in atto senza scrupoli dai nazisti durante l’occupazione è la causa scatenante della sua reazione furiosa e dell’organizzazione che in breve egli mette in piedi: un nucleo clandestino di uomini, che con coraggio e grande rischio agiscono nell’ombra per arginare e scongiurare le espropriazioni illecite. Essi spiano le mosse tedesche e si mettono sulle tracce dei convogli che esportano illegalmente capolavori sottratti dalle collezioni pubbliche e private in terra italiana.
Conosciamo anche parte del reclutamento degli uomini che lavorano con Siviero. Appena dopo l’8 settembre 1943 le forze armate fasciste, in stretto rapporto con la Gestapo e alle dipendenze del servizio segreto militare nazista, costituiscono un servizio informazioni della difesa, il SID, concepito sulla falsariga del SIM e con il compito di reprimere qualunque sospetto antifascista. Eppure l’organizzazione mostra subito alcune falle: al suo interno sono collocati, infatti, da una struttura parallela e opposta, una rete di infiltrati militari e civili di convinzioni antifasciste. Rodolfo nei suoi memoriali è prodigo di dettagli e conclude il resoconto con arguzia toscana, quando dice che «la Gestapo, istituzionalmente sospettosa di tutti non pensava mai di localizzare il nostro servizio dentro i suoi uffici e attribuiva spesso all’ineluttabile certi fatti che accadevano. Degli italiani per fortuna i tedeschi capivano poco e soprattutto certi italiani, basti pensare che per Hitler Mussolini era un antico romano».
Le tre prime sezioni del SID, quelle di Milano, Bologna e Firenze, al nascere contano già diversi informatori combattenti contro il nazifascismo. È da quelle fila che Siviero e i suoi uomini più fidati ingaggiano le nuove leve.
La struttura di Rodolfo opera a largo raggio su tutto il territorio, ma ha come centro di irradiazione il villino della famiglia Castelfranco sul Lungarno Serristori (oggi sede del Museo-Casa Siviero) e come luogo di incontro e trasmissione delle informazioni raccolte il Caffè del Porcellino in piazza delle Logge del grano. Presso la soprintendenza alle Gallerie in piazzale degli Uffizi ha sede una delle sezioni del servizio. Si tratta sostanzialmente di due missioni operative affidate a sezioni distinte: una deve informare il comando alleato dei piani tedeschi, l’altra ha il compito di avvertire le formazioni partigiane delle azioni punitive e dei rastrellamenti e vigila su qualunque tipo di persecuzione e sui furti di opere d’arte. Rodolfo ne è uno dei coordinatori e affida a un colonnello con cui ha lavorato nel SIM l’onere di memorizzare chi tra i collaboratori di quel servizio sia stato antifascista per arruolarlo. Allo stesso graduato è poi conferito il compito di assoldare altri patrioti, che egli poi delega a un maggiore del distretto di Milano. La garanzia dell’affidabilità è data, per tutti i collaboratori, dalla conoscenza personale di ogni arruolato. Il nucleo appare collegato con la brigata Sinigaglia, formatasi nel giugno del ’44 e protagonista di azioni risolutive nella lotta per la liberazione.
In breve, si costruisce una rete italiana di infiltrati e informatori capaci di intercettare ogni notizia e comunicazione nemica.
Ricapitoliamo. Dal settembre del 1943 e per tutto il ‘44 Rodolfo Siviero collabora con gli alleati e con la resistenza partigiana coordinando un gruppo di uomini per pochi ma fondamentali scopi. Il nucleo di Sivero si propone di contrastare le ruberie tedesche e controllare le attività del Kunstschutz (un ufficio apparentemente istituito dai nazisti a Firenze per arginare la dispersione di capolavori, ma sostanzialmente nato per attivarne l’esportazione illegale); scoraggiare il più possibile altri acquisti illeciti e trafugamenti di opere d’arte in musei, collezioni private e chiese; tenere sotto osservazione, impedire, ritardare o, quanto meno, pedinare i convogli che trasportano verso nord materiale artistico italiano; intercettare e comunicare ogni movimento legato alle suddette operazioni illegali; scongiurare i bombardamenti sui mezzi di trasporto avvisando gli angloamericani del loro prezioso contenuto. E tutto questo mentre la guerra, che sembra conclusa con la caduta del Fascismo, infuria nel modo più disumano.
Dai resoconti di Siviero emerge anche un altro elemento importante. Secondo la sua testimonianza, ogni documento, traccia, o dettaglio sulle intenzioni, le azioni, i tempi e i luoghi relativi ai furti di opere d’arte, vengono nascosti tra le pagine dei libri della biblioteca nel villino dei Castelfranco. Si trova, dunque, proprio in quello studiolo il quartier generale del nucleo capeggiato dall’agente segreto. Tra le pagine di libri e cataloghi, in quei mesi si accumula un archivio di segreti e dispacci. Una preda di guerra su cui i nazisti non riescono a mettere le mani.

Rodolfo Siviero con Galatea e Pigmalione di Agnolo Bronzino – confiscata da Hitler e Goering dalla collezione Barberini nel 1944, recuperata da Siviero nel 1947
Dall’archivio del SIM, misteri e Partito d’azione
Ma l’attività di Rodolfo Siviero non può mai essere trasparente, e gli stessi alleati – dopo la liberazione – finiscono per indagare sulla sua persona, comunque legata a trascorsi sospetti. Dalle carte relative a Siviero nell’archivio storico del SIM che ho compulsato purtroppo non emergono dati che aiutino a precisare la sua attività di questi anni. Semmai lo spoglio dei documenti segreti fornisce alcune informazioni sulle indagini, coperte dal massimo riserbo, che dall’autunno del 1944 il Comando alleato rivolge allo Stato maggiore generale – sezione di controspionaggio – sul conto di Siviero e sui suoi rapporti col generale Pariani. Dallo spoglio dei documenti riservati trapelano comunque gli estremi di un mai sopito sospetto verso l’ex spia fascista.
Le notizie biografiche e spionistiche sull’agente segreto, rimbalzate di ufficio in ufficio in ogni ministero, risultano fin da allora introvabili; altrettanto fosche sono le informazioni sull’attività di Siviero presso il generale Pariani.
Ma ciò non deve stupire. Durante tutta la vita Rodolfo ha fatto sparire le tracce di sé, che non siano le vicende e le avventure che lui stesso ha voluto narrare. Perfino i diari a tratti danno l’impressione di essere scritti in funzione dei futuri lettori. Nell’oscurità dei resoconti, qualche maglia allargata lascia però trapelare preziose informazioni, quali, ad esempio quella che siano alcuni membri del Partito d’azione a spingere perché la sua attività clandestina sia inquadrata, ancora in tempo di guerra, in una forma più istituzionale, forse proprio quella ‘Delegazione per il recupero delle opere d’Arte rubate dai tedeschi’ di cui parlano alcune testimonianze partigiane.
La documentazione sulle razzie
Circa l’operazione di recupero dei beni razziati dai nazisti, avviata all’indomani dalla liberazione, il corpus di documenti nemici raccolti da Siviero s’intreccia con la documentazione che gli alleati rinvengono nel sinistro archivio del Kunstschutz. Forse Siviero ha esagerato nell’attribuirsi il merito principale, ma anche in questo è interessante l’immagine di sé che lui stesso ha voluto evocare e tramandare. L’agente segreto, la spia, il fascista, il doppiogiochista – ma nondimeno il critico d’arte mancato e il giornalista frustrato – racconta ai posteri un suo riscatto. Se i soldati tedeschi danno fuoco agli archivi storici e sbeffeggiano le opere d’arte che sono costretti a trasportare verso il Nord per i loro avidi capi, a Firenze si risponde con l’astuzia documentaria. E lui ne è la mente.
I cosiddetti storici dell’arte del Kunstschutz pianificano le ragioni storico-critiche degli elenchi di opere italiane da trafugare, e le azioni incrociate e coordinate per mettere in atto la razzia e gabbare gli stolti italiani indegni del loro passato. Ma la truppa che esegue gli ordini è becera e incolta e apre falle impreviste nell’organizzazione. Capita così che, mentre i soldati trasportano centinaia di capolavori oltre confine, essi decidano di fermarsi a Merano a pasteggiare e organizzino un festino intorno alla Venere di Tiziano con torce e candele. Siviero ne racconta il triste evento con dovizia di dettagli.
Allo stesso modo, i filologi del Kunstschutz non considerano che tra gli italiani non ci sono solo rozzi agenti segreti o funzionari idealisti ma vigliacchi che fuggono davanti a un mitra. C’è anche un uomo che li spia con i mezzi appresi nella sua permanenza in Germania. Egli osserva i loro piani, sorveglia le mosse e le intenzioni. I suoi uomini lo informano, lui registra ogni dettaglio e nasconde i documenti dove la truppa non può arrivare: tra le pagine dei libri.
Nel suo memoriale più strutturato, fondamentale per la mia ricostruzione biografica, i materiali nascosti nella biblioteca di casa Castelfranco e i documenti sottratti dagli americani ai tedeschi, divengono l’oggetto della sua analisi e il decumano della sua narrazione.

Rodolfo Siviero con l’Efebo di Selinunte, trafugato dalla mafia nel 1962 dal Municipio di Castelvetrano e recuperato da Siviero nel 1968
L’immediato dopoguerra
Alla metà del ’44 ferve l’attività di ricostruzione dei monumenti e di conteggio dei danni inferti al patrimonio culturale. Danni che vanno assai al di là dell’immaginabile. Dalla liberazione e per tutto il ’45 l’assetto istituzionale italiano in difesa delle opere d’arte e dei monumenti si profila e si definisce. È lì che per Siviero si disegna un doppio destino: uno luminoso, quello di un uomo fuori dagli schemi con un passato leggendario che gli fa ottenere posti di rilievo nella politica di recupero, e un altro oscuro che lo rende oggetto di diffidenze e di qualche aperta ostilità.
Se gli Americani non si fidano troppo dell’ex spia fascista, il rapporto con gli Inglesi è migliore: fin dalla liberazione di Roma e Firenze, Siviero coopera con costoro per la riorganizzazione sistematica dei ritrovamenti e dei servizi ancora in mano al nemico, nonché per la protezione da garantire ai depositi di capolavori rimasti oltreconfine. Anche le liste di opere rubate o illegalmente esportate, trascritte e conservate con cura, sono raccolte da italiani e alleati per predisporre la ricerca. Da quel momento per gli angloamericani, per il servizio di Rodolfo e per tutte le istituzioni italiane coinvolte nel lavoro di restituzione e ricostruzione attraverso i documenti, si tratta di un’opera capillare e interminabile.
Anche in questo caso il profilo pubblico del detective Siviero è controverso: egli ha passato anni nella clandestinità partigiana e ha contribuito al salvataggio preventivo di tante opere d’arte, accumulando un archivio prezioso. Ma l’essere stato una spia dei servizi segreti fascisti è un’onta che non si perdona.
Tuttavia la sua funzione e la sua esperienza sono preziose e le istituzioni hanno bisogno di lui. Nel dicembre del ’44, su proposta di Benedetto Croce, del ministero degli Esteri, della Guerra, dell’Istruzione e della Giustizia, di intesa con il Comando alleato in Italia, è ufficialmente affidato a Siviero il compito di recuperare opere d’arte, bibliotecarie, archivistiche e il materiale scientifico asportato.
Del suo primo servizio a Firenze, non si sa molto. Con la solita risolutezza da poliziotto egli si firma ‘Capo ufficio recuperi’, senza ancora averne titolo. Non è difficile immaginare quanto questo abuso possa urtare la suscettibilità di molti. Ma stavolta il detective dell’arte ottiene il riconoscimento che ambisce: l’Ufficio recuperi di Rodolfo Siviero dal 16 maggio 1945 ha una sua ratifica ufficiale.
Al suo esordio, la disponibilità delle istituzioni per l’ufficio di Siviero è massima e al suo servizio vengono assegnati alcuni uomini, tra ufficiali e sottoufficiali, ed egli gode dell’appoggio del centro di controspionaggio di Firenze. Eppure, malgrado i suoi ottimi rapporti con gli Inglesi, dai documenti riservati del SIM emerge che il Comando alleato continua a indagare su di lui. Anche perché il ‘soldataccio del SIM’ persegue nella sua condotta a dir poco sbrigativa, sempre sui limiti della legalità.
Nel documento di incarico si legge, infatti, che per il compito assegnatogli Siviero è autorizzato a rivolgersi, con specifiche richieste motivate, ai centri di Controspionaggio, per richiedere il loro intervento nel campo della polizia giudiziaria e per interrogatori, accertamenti, sequestro di materiale artistico del patrimonio nazionale da chiunque illecitamente detenuto, fermo preventivo di materiale del genere di contestata provenienza, etc. Vi si precisa, poi, che il responsabile del servizio è munito di Brown pass, il lasciapassare inglese di riconoscimento, e può spostarsi liberamente nelle località che lo interessano con autorizzazione dei competenti organi alleati.
La piena disponibilità accordata a Siviero, di cui egli certo approfitta senza remore, suscita immediatamente una serie di malintesi tra i dicasteri e sfocia infine in un’ennesima polemica. Egli deve occuparsi dei recuperi delle opere trafugate e non comportarsi come un ufficiale giudiziario; ma dai documenti emergono numerose lagnanze sui metodi del capo ufficio recuperi, che agisce in piena – e forse eccessiva – autonomia non solo in merito alle ricerche sui beni trafugati, ma anche alle indagini su raccolte private, nell’ambito delle quali ferma e interroga le persone, senza interpellare gli uffici di polizia giudiziaria competenti. Il suo è un comportamento «in stile di comando», si legge nei documenti.
Tutto lascia supporre che Rodolfo abbia sollevato un polverone nel rivendicare la legittimità delle sue indagini su collezioni private di beni, comunque sotto tutela statale, esportati o commerciati prima e durante l’epoca bellica. Ma come sempre l’anomalia dei suoi comportamenti rischia di mettere in ombra la liceità del suo lavoro.
Nondimeno sono in molti, tra le eminenti personalità delle istituzioni e della cultura, a credere in lui a ad appoggiare senza alcun dubbio la sua attività di indagine.
La corrispondenza segreta, qui non riportabile per esteso, documenta uno scenario ricorrente, nel futuro della vita dell’Ufficio recuperi, soprattutto una volta trasferitosi a Roma: un lavoro forsennato e penetrante da parte di Siviero e dei suoi uomini, accompagnato da critiche e denunce nei confronti delle sue modalità di azione, e da rischi di chiusura dell’attività dietro ogni angolo.
Dal 1945 al 1983. Una carriera gloriosa ma difficile
A partire dal 1945 Rodolfo Siviero è, comunque, il capo dell’Ufficio recuperi e partecipa in prima persona al ritrovamento dei beni trafugati da nazisti e stoccati nei nascondigli altoatesini durante l’occupazione. Dal 1946 il suo ruolo istituzionale si precisa meglio e gli viene affidato un ufficio interministeriale per i recuperi, in nome del quale egli avvia le prime missioni in Germania, accreditato presso le autorità americane di occupazione, per trattare le restituzioni degli innumerevoli opere italiane ancora mancanti all’appello.
Il suo è un lavoro diplomatico delicatissimo, che Siviero svolge con la solita spregiudicatezza e astuzia, non senza continuare a suscitare irritazione e ostilità da parte degli interlocutori.
Ma i successi messi a segno sono moltissimi. Il più spettacolare è l’aver ottenuto, nel 1948, la modifica dell’articolo 77 del Trattato di pace firmato a Parigi nel 1947 dalle potenze europee, grazie alla quale l’Italia può negoziare la restituzione delle opere d’arte acquistate in modo proditorio dalle alte cariche naziste prima dell’armistizio. L’accordo Adenauer De Gasperi ratifica definitivamente il successo di Siviero, cui viene affidata, quello stesso anno, la Delegazione italiana per le restituzioni, un’istituzione interministeriale che l’ex spia, l’ex agente segreto e paladino a oltranza della difesa del nostro patrimonio artistico dirigerà fino alla sua morte, superando indenne, se pure con grande fatica, le tante bufere burocratiche, amministrative, politiche e mediatiche che ne hanno sempre accompagnato il meritorio lavoro.
Il fatto che Rodolfo Siviero abbia ottenuto la pensione dello Stato italiano solo da morto, dopo averne fatta richiesta per anni, è la conclusione insieme surreale e non troppo sorprendente della sua appassionante storia.
Bibliografia
Francesca Bottari, Rodolfo Siviero. Avventure e recuperi del più grande agente segreto dell’arte, Castelvecchi editore, Roma 2013 (con bibliografia specifica e documenti di archivio)
L’autrice
Storica dell’arte e specialista in analisi del patrimonio culturale, Francesca Bottari insegna e scrive. Ha lavorato per un biennio presso il Centro Servizi Educativi del MiBACT nella progettazione didattica dei musei pubblici. Ha redatto saggi e monografie a carattere storico-artistico (tra gli altri, Borromini, 1999 e Bernini, 2000, per Artemide ed.), di museologia e valorizzazione territoriale per l’Istituto Poligrafico dello Stato. In ambito pedagogico, ha pubblicato un testo di Didattica di beni culturali per scuola e università (L’Italia dei tesori, Zanichelli, 2002) e il testo universitario di I beni culturali e il paesaggio (Zanichelli, 2007).
Categoria: Storie di spie