Una minaccia persistente

17 Febbraio 2015

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Pubblicato nel 2014 dalla Rand Corporation, il rapporto A Persistent Threat: The Evolution of al Qai’da and Other Salafi Jihadists[1], anche grazie all’esame di diverse centinaia di documenti, fornisce al lettore un’analisi approfondita e puntuale sia dell’evoluzione subita nel corso degli anni dal movimento jihadista sia dello ‘stato dell’arte’ dei gruppi terroristici che appartengono a tale vasto movimento.

L’ampliamento delle reti salafite

Secondo l’autore della ricerca, Seth Jones[2], direttore dell’International Security and Defense Policy Center del think tank californiano nonché docente presso la School for Advanced International Studies (SAIS) dell’Università Johns Hopkins, dal 2010 in poi vi è stato un considerevole incremento nel numero dei combattenti jihadisti, in particolar modo in Siria ed in Africa del nord. Sulla base dei dati elaborati dal docente americano, infatti, nel periodo che va dal 2010 al 2013 i gruppi salafiti operanti sono aumentati di circa il 58%. Un netto incremento nei trend che ha riguardato, peraltro, quasi esclusivamente il Nord Africa ed il Levante.

Numero di gruppi salafiti-jihadisti per anno, 1988-2013

Fonte: S. Jones, A Persistent Threat: The Evolution of al Qa’ida and Other Salafi Jihadists, Rand Corporation, 2014

 

Numero di salafiti-jihadisti per anno, 1988-2013

Fonte: S. Jones, A Persistent Threat: The Evolution of al Qa’ida and Other Salafi Jihadists, Rand Corporation, 2014

Diretta conseguenza di ciò è il contestuale raddoppio nel numero dei combattenti jihadisti operativi, soprattutto in Siria dove, ad esempio, i salafiti, a seguito di un’ascesa verificatasi tra il 2013 ed il 2014, costituiscono attualmente la forza più rilevante all’interno del movimento di ribellione anti-governativa.

Quali sono, quindi, le cause della crescita del movimento jihadista salafita negli anni recenti? Secondo Seth Jones sono principalmente due. In primo luogo la crescente debolezza – quando non il crollo – delle strutture di potere statuali nella regione compresa tra Africa del nord e Medio-Oriente. Tale debolezza, infatti, rende difficile il controllo del territorio da parte dei governi centrali e, soprattutto nelle provincie più remote, rende più facile a miliziani, terroristi o altri attori sub-statuali operare coprendo il vuoto di potere governativo.

Scrive l’autore: «When state institutions are weak, opportunistic elements in society are able to take advantage. State weakness is particularly likely in remote areas, where insurgent and terrorist groups can establish rural strongholds. The more extreme the decline or absence of authority in a region, the more the population becomes “virgin territory” for those who would become an alternative government. Weak governance fuels alternative power centers, and warlords often flourish. Poor governance also increases the likelihood of insurgency and terrorism because the state’s security forces are weak and lack popular legitimacy.»[3]

I dati empirici, d’altronde, sembrano confermare l’ipotesi di Jones. Secondo uno studio citato nel rapporto[4], infatti, l’analisi di 161 casi di insurrezioni in un periodo di 54 anni dimostra che la debolezza politica, finanziaria ed organizzativa del governo centrale rende più facili le insurrezioni, anche a causa della connessa inefficienza nelle attività di contrasto sia da parte delle forze di polizia che da parte delle forze armate.

Le ‘Primavere arabe’, afferma Jones, indebolendo o destrutturando i sistemi di potere di molti Stati nord-africani e medio-orientali hanno permesso la nascita di nuovi gruppi jihadisti o il rafforzamento di quelli già esistenti. Il declino della governance, quindi, sarebbe la prima causa alla base dell’ascesa del movimento salafita negli ultimi 3/4 anni.

Il secondo dei due fattori principali, secondo il ricercatore americano, sarebbe da ricercare nella diffusione delle reti di militanti jihadisti i quali, addestratisi e formatisi in Iraq, Afghanistan e Pakistan negli anni precedenti, si sarebbero poi spostati, soprattutto dopo il 2010, in Nord Africa e Levante. La scarsità di dati, però, rende difficile allo stato attuale poter avere una solida conferma empirica a tale ipotesi anche se l’analisi dei documenti (generalmente di fonte primaria) realizzata da Jones sembra supportarla. Ad esempio, gran parte della dirigenza dei gruppi salafiti combattenti in Medio Oriente ed Africa del Nord risulta essersi formata in Iraq o in Asia Centrale durante i conflitti degli anni Ottanta, Novanta e Duemila.

L’aumento della violenza

Oltre ad un consistente ampliamento nelle reti salafite combattenti si riscontra, secondo il rapporto della Rand, un simmetrico incremento nel numero degli attacchi realizzati dagli jihadisti. In particolare sarebbero i gruppi affiliati ad al Qaeda, e non quest’ultima, ad aver aumentato il loro livello operativo. Tra il 2007 ed il 2013, infatti, lo Stato Islamico iracheno ha incrementato del 43% il numero degli attacchi, al Shabab in Somalia del 25%, Jabhat al-Nusrah in Siria del 21% ed il gruppo al Qaeda nella Penisola araba del 10%. Yemen, Somalia, Iraq e Siria sarebbero, quindi, le aree dove gli jihadisti hanno sviluppato negli ultimi anni i livelli di violenza più elevati.

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Fonte: S. Jones, A Persistent Threat: The Evolution of al Qa’ida and Other Salafi Jihadists, Rand Corporation, 2014

Le capacità operative di al Qaeda (‘Core’ o ‘Central’) risultano, invece, aver subito una flessione, soprattutto tra il 2012 ed il 2013. I dati raccolti indicano, infine, che tra il 2007 ed il 2013 la quasi totalità degli attacchi è stata effettuata contro bersagli locali (il ‘nemico vicino’) preferendo questi ultimi ad obiettivi occidentali ed internazionali (il ‘nemico lontano’). È appena il caso di evidenziare che nella storia quasi trentennale del movimento jihadista proprio al Qaeda ed il suo mentore, Osama bin Laden, abbiano fortemente propugnato una strategia di attacco al ‘nemico lontano’. Una linea operativa, quest’ultima, che attualmente non risulta più essere quella preferita dal movimento. Probabilmente, afferma Jones, perché non pagante, dispendiosa e di difficile implementazione.

Attacchi di al Qaeda e affiliati in modalità 'nemico lontano' e 'nemico vicino', 2007-2013

Fonte: S. Jones, A Persistent Threat: The Evolution of al Qa’ida and Other Salafi Jihadists, Rand Corporation, 2014

La complessità del movimento jihadista

Sarebbe errato, però, ritenere il movimento jihadista monolitico ovvero un blocco coeso organizzato più o meno gerarchicamente attorno ad un nucleo centrale costituito dal gruppo denominato al Qaeda.

La realtà, afferma il Prof. Jones, è molto più articolata e complessa costituita. Il movimento salafita è costituito da quattro differenti tipi di attori. Il primo è al Qaeda strettamente intesa (o ‘Core’), un nucleo ristretto composto dai leader storici del gruppo creato da Bin Laden negli anni Ottanta, sopravvissuti all’intensa attività di contrasto successiva all’11 settembre 2001, che si nascondono tra Afghanistan e Pakistan. Al Qaeda mantiene tutt’ora un certo controllo ed un certa influenza sul network jihadista (soprattutto di tipo ‘ispirativo’) pur non potendosi parlare di un vero e proprio comando di tipo gerarchico.

Un secondo livello è composto dai gruppi affiliati ovvero quei gruppi jihadisti salafiti i cui leader hanno prestato la bay’at, il giuramento di fedeltà ad al Qaeda. Sono affiliati, ad esempio, il gruppo al Qaeda nella penisola araba yemenita, il gruppo al Qaeda nel Maghreb islamico algerino, il gruppo al Shabab somalo, il gruppo Jabhat al Nusrah siriano.

Una terza categoria di attori è composta da gruppi jihadisti che non hanno prestato alcun giuramento di fedeltà alla leadership di al Qaeda come, ad esempio, lo Stato islamico iracheno. Tali gruppi, pur avendo rapporti diretti con il nucleo centrale di al Qaeda, mantengono però la loro autonomia scegliendo strategie ed obiettivi in modo indipendente. Essi collaborano con al Qaeda solo episodicamente, su specifiche operazioni, quando gli interessi convergono.

Infine, il quarto livello è composto da singoli individui o network più o meno estesi, poco o affatto strutturati, privi di rapporti diretti con al Qaeda dalla quale traggono al massimo ispirazione. Tali attori sono generalmente motivati da un forte risentimento nei confronti dell’Occidente e dei regimi considerati oppressori dei popoli musulmani.

Risulta evidente, quindi, come il movimento jihadista salafita internazionale sia in realtà eterogeneo in quanto composto da attori differenti, che operano in contesti geografici dissimili, perseguono obiettivi differenti, hanno visioni strategiche differenti, implementano linee operative differenti avendo a disposizione risorse differenti. L’eterogeneità naturale del movimento jihadista si è ulteriormente rafforzata negli ultimi anni, sostiene Jones, a seguito dalla decentralizzazione subita dal network jihadista il quale è stato costretto ad attenuare la propria struttura gerarchica per poter sopravvivere alle attività di contro-terrorismo svolte dai Paesi occidentali e dai loro alleati. D’altronde, afferma ancora il docente americano, è anche possibile che gli stessi leader jihadisti, in un determinato momento storico, abbiano ritenuto più consona ai propri obiettivi una struttura organizzativa ‘piatta’ e diffusa e, in tal senso, più resiliente e flessibile. Quale che sia la causa di tale decentralizzazione, afferma Jones, essa rende il movimento più vulnerabile e meno adatto al raggiungimento di obiettivi complessi.

Scrive il docente: «The decentralized structure of al Qa’ida and other Salafi-jihadist groups should be a cause of concern for its leaders, and it presents an opportunity for counterterrorism agencies. Decentralized groups have a low probability of achieving their objectives. Among the roughly 180 insurgencies since World War II, several of which al Qa’ida and other Salafi-jihadist groups participated in, there has been substantial variation in the degree of centralization among groups. Some groups have enjoyed a high level of central control (the leadership directly controls virtually all operations and resources); others have a moderate level of central control (the leadership directly controls some, but not all, operations and resources); and still others have a low level of centralized control (the leadership directly controls few operations and resources).

Groups with high levels of centralization have been more likely to achieve victory (41.5 percent) than ones with moderate levels (31.4 percent) or low levels (17.4 percent) of centralization. It is not entirely clear why high levels of centralization are more strongly correlated with insurgent victory, since numerous factors impact the outcome of insurgencies. But the cold reality for al Qa’ida and Salafi-jihadist groups is that decentralized groups are unlikely to succeed in achieving their long-term objectives. Decentralized groups are more likely to face principal agent problems, and they may also find it challenging to control territory, since lower-levels cells are more likely to usurp power and resources for their own interests with limited oversight. Finally, there is often a higher likelihood of divisions among decentralized groups and movements, making it easier for government agencies to play groups against each other and sow discord among them.»[5]

In conclusione, la minaccia jihadista si è evoluta nel corso degli anni anche come conseguenza dell’attività di contrasto realizzata soprattutto dopo il 2001. Nel corso degli ultimi anni i gruppi affiliati, i più attivi nella presente fase, sono stati costretti a concentrare la loro attività su obiettivi locali aumentando il numero di attacchi ed espandendosi soprattutto in Levante ed Africa settentrionale aiutati in ciò dal vuoto di potere realizzatosi a seguito delle ‘Primavere arabe’. È auspicabile, conclude Jones, che la pressione esercitata fino ad ora non cali ma, anzi, si affini sempre più, anche grazie ad una più estesa collaborazione internazionale, in modo da costringere il movimento jihadista a frammentarsi ulteriormente continuando ad indebolirsi.

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[1] S. Jones, A Persistent Threat: The Evolution of al Qa’ida and Other Salafi Jihadists, Rand Corporation, 2014, http://www.rand.org/pubs/research_reports/RR637.html (ultimo accesso 12 febbraio 2015).

[2] Un profilo dell’autore è disponibile all’indirizzo http://www.rand.org/about/people/j/jones_seth_g.html (ultimo accesso 12 febbraio 2015).

[3] Ivi, p. 43.

[4] Ivi, p. 44.

[5] Ivi, p. 24.

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