Machiavelli analista intelligence
di Matteo Faini
Quando scrisse la sua ormai famosa lettera a Francesco Vettori del 10 dicembre 1513, annunciandogli la composizione di “un opuscolo De Principatibus”, Niccolò Machiavelli mai avrebbe potuto immaginare a quali accuse e abusi il suo prezioso opuscolo sarebbe stato sottoposto.
L’accusa che più facilmente avrebbe sopportato sarebbe stata quella del Cardinale inglese Reginald Pole, il quale già nel 1539 sosteneva che il Principe fosse stato scritto “col dito del Diavolo”[1]. Niccolò, dopotutto, sembra avesse raccontato in punto di morte di preferire la compagnia dei dannati dell’inferno, con i loro solenni discorsi politici e le loro grandi e scellerate imprese, a quella dei beati del paradiso, ricoperti di stracci e di Miserere[2]. L’essere accostato al Diavolo non avrebbe potuto certo offenderlo.
Il nostro Niccolò avrebbe forse avuto maggiori difficoltà ad accettare le moderne rivisitazioni del suo opuscolo, atte a fornire “machiavellici” consigli alle categorie più svariate. Abbiamo così “Machiavelli for Women”, “Machiavelli for Moms”, “A Child’s Machiavelli” e addirittura “Tennis by Machiavelli”.
A Machiavelli, per fortuna, il senso dell’umorismo non mancava. Ci perdonerà dunque se, per celebrare il cinquecentesimo anniversario della composizione del Principe, applichiamo le sue lezioni a una categoria che, tra l’altro, molto si avvicina a quanto egli stesso fece in vita, l’analista d’intelligence.
Per farlo è utile tornare indietro al primo importante incontro tra Machiavelli e Vettori. Nella prima metà del 1508 i due si trovarono insieme presso la corte dell’Imperatore Massimiliano. Alla Dieta di Costanza dell’anno prima, l’Imperatore aveva chiesto 19,000 soldati per una sua prossima discesa in Italia. Insieme alle forze di cui già disponeva, Massimiliano pensava di poter raggruppare 30,000 soldati, con cui poi scacciare i francesi dalla Lombardia e farsi incoronare imperatore dal Papa. I 19,000 soldati della Dieta erano rimasti una promessa incompiuta. Tuttavia, la possibilità di una discesa dell’imperatore continuava a togliere il sonno a molti governanti della nostra penisola.
Vettori e Machiavelli avevano il compito di comprendere quali fossero le intenzioni e le forze del sovrano. La Repubblica Fiorentina si rimetteva totalmente al loro giudizio. Entrambi erano d’accordo sul fatto che a un “certo giudizio della passata [in Italia dell’Imperatore]”, non sarebbe potuto arrivare neanche “l’uomo più savio del mondo”[3]. Essi tuttavia dissentivano riguardo a quanto fosse possibile ridurre l’incertezza rimanente[4]. Vettori era scettico sulla possibilità di raccogliere informazioni credibili, se non con i propri stessi occhi. Anche se un uomo di fiducia gli avesse detto che la dieta imperiale aveva preso la decisione di scendere in Italia con 100.000 soldati al seguito, egli non si sarebbe convinto: “Non sono per crederlo se non ne veggo gli effetti”. Basandosi su quanto aveva visto, Vettori preferiva evitare di “giudicare in arcata”, ossia di dare quel giudizio ampio che avrebbe potuto guidare l’importante scelta di politica estera dei suoi capi. Lasciava invece ai capi stessi la facoltà di formulare un tale “giudizio in arcata”, ammonendoli che avrebbero dovuto prendere una decisione senza che fosse possibile analizzare ulteriormente la questione: “senza tritarla altrimenti”. Proprio perché la scelta era così importante, sosteneva Vettori, ci si doveva basare su informazioni certe: “uno che ha a pigliare un simile partito, non si può fondare se non in su quello che vede”.
Di tutt’altro avviso era il nostro Niccolò. Appena tornato a Firenze Machiavelli scrisse il “Rapporto di cose della Magna fatto questo dì 17 giugno 1508”[5], in cui formulava il giudizio che Vettori non aveva ritenuto possibile. Machiavelli sapeva che “ognuno varia in quello si debba temere o sperare per l’avvenire, e dove le cose si possino indirizzare”, ma rivendicava che, “sendo [io] stato in quel luogo, et avendone udito ragionare molte volte a molti”, poteva rispondere ai quesiti che tutti si ponevano. Non tutte le informazioni che Machiavelli aveva raccolte potevano dirsi “vere et ragionevoli”, tuttavia “se non distintamente, tutte insieme alla mescolata”, potevano fornire una risposta. Solo così Machiavelli pensava di aver svolto “l’ufizio d’un servitore”, ossia “porre innanzi al signor suo quanto egli intende, aciocché di quello vi sia di buono e’ possi far capitale.”
Massimiliano aveva notevoli entrate finanziarie e potenti alleati in tutta Europa, al punto che “quando e’ se ne sapesse valere, e’ non sarebbe inferiore ad alcun altro potentato cristiano.” Eppure, Machiavelli riteneva che l’Imperatore avrebbe potuto portare a termine una vittoriosa impresa italiana soltanto in due casi: “o che mutassi natura, o che la Magna lo aiutasse daddovero.”
Massimiliano aveva due qualità, “la liberalità e la facilità, che lo fanno laudare a molti, [ma che] sono quelle che lo ruinono.” L’imperatore era infatti un “uomo gittatore del suo” e incapace di controllare le proprie spese, il che lo costringeva a continue e spesso umilianti richieste di denaro. Ancor peggio, egli era “vario, perché oggi vuole una cosa et domani no”, e si lasciava convincere e spesso ingannare da ogni persona che veniva a dargli consiglio.
Come se ciò non bastasse, la Magna su cui egli governava, almeno nominalmente, era riottosa e indisponibile a seguire i suoi ordini. L’Impero era formato da una miriade di staterelli, spesso in guerra tra loro, nolenti e incapaci di convogliare le proprie immense ricchezze e la propria notevole forza verso un obbiettivo comune.
Nonostante l’incostanza dell’Imperatore “fa[cesse] difficili le legationi presso di lui, perché la più inportante (sic!) parte che abbia uno oratore che sia fuori per un principe o republica, si è coniecturare bene le cose future”, Machiavelli concludeva dicendo ai fiorentini che non avevano di che preoccuparsi e che difficilmente l’impresa italiana dell’Imperatore avrebbe avuto successo.
Machiavelli aveva dunque compreso lo scopo fondamentale del lavoro dell’analista d’intelligence: la riduzione dell’incertezza fronteggiata dal decisore politico[6]. Non si nascondeva le difficoltà nel formulare un giudizio in cui poter riporre un sufficiente livello di fiducia, eppur sapeva che se egli stesso non avesse formulato un tale giudizio, altri, peggio informati, sarebbero stati costretti a farlo.
Ciò non significa che Machiavelli riponesse troppa fiducia nel proprio giudizio, o che ritenesse che non esistessero situazioni la cui distribuzione delle probabilità sia oggettivamente imprevedibile o distribuita equamente, rendendo impossibile sbilanciarsi. In almeno un paio di occasioni Machiavelli scrisse ai Dieci della Guerra dicendo loro che, nonostante tutti i suoi sforzi, non era riuscito a capire quali fossero le intenzioni del Duca di Valentino, Cesare Borgia[7]. Tuttavia è chiaro che vedeva queste sue missive come un fallimento, non come un esercizio di prudenza.
Vettori, invece, rifiutandosi di formulare un “giudizio in arcata”, abdicava alla sua funzione fondamentale. La sua pretesa di giudicare solo in base a quello che vedeva lo rendeva inutile ai decisori politici che dovevano o decidere senza informazioni aggiuntive o aspettare fino a quando sarebbe stato troppo tardi.
Il dibattito tra Machiavelli e Vettori sulla possibilità di giungere a giudizi in cui poter riporre sufficiente fiducia, continuò dopo la caduta della Repubblica Fiorentina, che aveva visto Machiavelli cacciato dal suo posto di Segretario Fiorentino, imprigionato e torturato dal nuovo regime Mediceo. Il 30 marzo del 1513 Vettori, diventato nel frattempo ambasciatore presso la Santa Sede, scrisse al suo vecchio amico descrivendogli come fosse rimasto sorpreso dalla recente elezione papale. “Trovato[si] ingannato” per l’ennesima volta, Vettori affermava di non voler “andar più discorrendo con ragione”.
La risposta di Machiavelli del 9 aprile successivo merita di essere citata per esteso:
“Se vi è venuto a noia il discorrere le cose, per veder molte volte succedere e’ casi fuora de’ discorsi et concetti che si fanno, havete ragione, perché il simile è intervenuto a me. Pure, se io vi potessi parlare, non potre’ fare che io non vi empiessi il capo di castellucci [progetti, NdA], perché la fortuna ha fatto che, non sapendo ragionare né dell’arte della seta, né dell’arte della lana, né de’ guadagni né delle perdite, e’ mi conviene ragionare dello stato, ei mi bisogna o botarmi [fare voto, NdA] di stare cheto, o ragionare di questo.”
Di fronte alla critica del Vettori alle fondamenta della propria disciplina, Machiavelli rispose riaffermando la propria passione per l’arte dello Stato, quell’arte che Machiavelli avrebbe poi chiamato “quel cibo, che solum è mio, et che io nacqui per lui”[8]. Machiavelli insegna dunque ad amare la propria disciplina di studio, anche quando ci appare inafferrabile e sfuggente.
La passione per l’arte dello Stato però, non doveva tradursi in fede politica che minasse l’oggettività dell’analisi. Lo stesso Machiavelli infatti rimproverò a Vettori, qualche mese più tardi, di essersi lasciato traviare da “una naturale affectione o passione”[9]. Il caso specifico che spinse Machiavelli a muovere questo rimprovero, se Firenze dovesse promuovere o meno il controllo francese della Lombardia, può sembrarci remoto. Tuttavia il suo monito a non lasciare che le nostre passioni politiche (diverse, si noti bene, dalla passione per la politica) offuschino le nostre capacità analitiche, è quanto mai attuale.
Allo scetticismo del Vettori, Machiavelli non aveva ancora dato una risposta argomentata. Questa si trova in larga misura nel Principe, specialmente nei capitoli XVIII e XXV. Vettori, abbiamo detto, dubitava della possibilità di capire quali fossero le intenzioni dei principi, e si vedeva costretto a stimarle “dalle parole, dalle dimostrazioni, et qualche parte ne immaginiamo.”[10] Machiavelli gli rispose che la ragione per cui gli uomini sono spesso ingannati dai principi è che “iudicano più agli occhi che alle mani; perché tocca a vedere a ognuno, a sentire a pochi.[11]” L’espressione “iudicare alle mani” indica la capacità di andare al di là delle apparenze e delle parole, spesso deliberatamente ingannevoli. Bisogna invece considerare ciò che gli uomini hanno fatto in passato e capire da quali passioni essi siano animati. Solo capendo le passioni dei principi, se essi siano rispettivi od impetuosi, paurosi od animosi, potremo capire “lo stato delle cose del mondo”[12].
Una volta capito lo stato delle cose del mondo, possiamo dirci al riparo dalle forze del caso e della Fortuna? Machiavelli dissentiva da chi, come il Vettori, riteneva che “le cose del mondo sieno in modo governate dalla fortuna e da Dio, che gli uomini con la prudenzia loro non possino correggerle”. Egli riteneva invece “che la fortuna sia arbitra della metà delle azioni nostre, ma che etiam lei ne lasci governare l’altra metà, o presso, a noi.”[13] La celebre similitudine con cui Machiavelli descriveva la forza della Fortuna merita di essere citata per intero:
“E assomiglio quella [la fortuna] a uno di questi fiumi rovinosi, che, quando s’adirano, allagano e’ piani, ruinano gli alberi e gli edifizii, lievono da questa parte terreno, pongono da quell’altra; ciascuno fugge loro dinanzi, ognuno cede allo impeto loro, sanza potervi in alcuna parte obstare. E benché sieno così fatti, non resta però che gli uomini, quando sono tempi quieti, non vi potessino fare provvedimenti, e con ripari e argini, in modo che, crescendo poi, o egli andrebbano per uno canale, o l’impeto loro non sarebbe né sì licenzioso né sì dannoso.”
La similitudine machiavelliana coglie al meglio la funzione dell’analista di intelligence. Proprio come chi costruisce gli argini di un fiume, esso deve saper indicare dove e quando si verificheranno i pericoli, consentendo ai decisori politici di correre ai ripari prima che sia troppo tardi. Per svolgere questa sua funzione l’analista d’intelligence deve conoscere gli uomini e le loro passioni, deve provare passione per la politica senza lasciare che le proprie passioni politiche minino l’oggettività della sua analisi e deve infine avere il coraggio di formulare giudizi precisi, anche se mai certi, che consentano ai decisori politici di prendere le decisioni migliori nell’interesse nazionale.
[1] Citato in Procacci, Giuliano Machiavelli nella Cultura Europea dell’Età Moderna, Laterza, Roma-Bari, 1995, p. 87.
[2] Il cosiddetto sogno di Machiavelli, probabilmente aprocrifo, è raccontato in Viroli, Maurizio Il Sorriso di Niccolò. Storia di Machiavelli, Laterza, Roma-Bari, 2013 (1° ed. 1998), p. 3.
[3] Citato in Carta, Paolo Niccolò Machiavelli e il giudizio politico:dalla legazione di Germania al «Principe», <http://www.academia.edu/2261471/Machiavelli_a_Trento._Il_giudizio_politico_dalla_legazione_di_Germania_al_Principe_ >(ultima consultazione 2014-01-13).
[4] Per quanto segue, si veda Najemy, John Between Friends: Discourses of Power and Desire in the Machiavelli-Vettori Letters of 1513-1515, Princeton University Press, Princeton (NJ), 1993, specialmente pp. 76-82.
[5] Il “Rapporto” e altri scritti sull’Imperatore e sulla Germania sono riprodotti in Machiavelli, Niccolò Istorie Fiorentine e altre opere storiche e politiche, a cura di Alessandro Montevecchi, UTET, Torino, 2007, pp. 169-188.
[6] Per una moderna discussione della funzione dell’analista di intelligence, si veda Fingar, Thomas Reducing Uncertainty. Intelligence Analysis and National Security, Stanford University Press, Palo Alto (CA), 2011 e la recensione pubblicata su questo sito.
[7] Si veda Viroli, Maurizio “Machiavelli’s Realism”, Constellations, Vol.14, No.4, 2007, pp. 466-482, specialmente p. 472.
[8] Si veda la lettera di Machiavelli a Vettori del 10 dicembre 1513.
[9] Lettera di Machiavelli a Vettori del 10 agosto 1513.
[10] Lettera di Vettori a Machiavelli del 12 luglio 1513.
[11] Il Principe, cap.18.
[12] L’espressione è usata da Machiavelli in una lettera del Vettori del 26 agosto 1513. Lo stato delle cose del mondo è descritto in questi termini: “noi habbiamo un papa savio, et per questo grave et rispettivo; un imperatore instabile et vario; un re di Francia sdegnoso et pauroso; un re di Spagna taccagno et avaro; un re d’Inghilterra ricco feroce et cupido di gloria; e’ Svizzeri bestiali, vittoriosi et insolenti; noi altri di Italia poveri, ambitiosi et vili”.
[13] Il Principe, cap.25.
L’autore
Matteo Faini è Bradley Fellow del Department of Politics dell’Università di Princeton dove sta scrivendo una tesi di dottorato sui rapporti tra agenzie di intelligence e decisori politici.
Per il nostro sito ha scritto anche Capire le intenzioni del nemico, Sherman Kent e il ruolo dell’intelligence nel processo di policy e “Lo sai tenere un segreto?”.
Categoria: Approfondimenti